Alcuni giorni fa, un’amica – dopo avere letto il testo del mio workshop Intelligenza emotiva e gestione del team – mi disse: “Non tutti sanno che cosa sia l’intelligenza emotiva. Secondo me, dovresti fare qualche esempio”.
È prezioso avere vicine persone come lei, attente a tenere legate le parole e le espressioni che usiamo comunemente alla realtà concreta e all’esperienza.
Le donne sono assai più capaci degli uomini di far dialogare il mondo delle parole con il mondo dei fatti e delle esperienze. Questo deriva da una cultura e da un’educazione di genere che favoriscono questo dialogo.
Parole ed emozioni
Oggi vorrei parlarti proprio delle parole in relazione alla vita emozionale.
Quando pensiamo alle emozioni, siamo portati ad immaginare qualcosa di molto solido e corporeo: le percepiamo nel cambiamento di temperatura, nella tensione muscolare, nel ritmo della respirazione e del battito cardiaco, nelle lacrime che non riusciamo a trattenere, in un sobbalzo improvviso, nell’indolenza piuttosto che nella pulsione ad agire continuamente e così via.
Se ascoltiamo bene il nostro corpo, le sensazioni che percepiamo ci dicono qualcosa delle nostre emozioni: l’ansia si manifesta come tensione ai muscoli delle spalle, dell’addome piuttosto che come “nodo in gola”; la felicità come uno stato di benessere e rilassamento e la gioia come eccitazione e spinta ad attivarsi; la tristezza come lentezza nel fare le cose.
Il nostro corpo ci offre segnali chiari di quali emozioni proviamo: impariamo a decodificarli.
Ciascuno di noi, osservandosi, può notare i particolari con cui il corpo reagisce ad una determinata emozione. Ho detto di proposito “reagisce” e non “esprime”. Tra poco ritornerò su questo punto e sarò più chiaro.
Le teorie della comunicazione ci insegnano a distinguere i canali verbale e non verbale per decodificare i segnali che ci vengono da un’altra persona e riconoscere quindi il senso di quello che ci vuole dire, la coerenza del messaggio piuttosto che le contraddizioni tra informazioni logiche ed emozionali.
Così una persona che piange e che ci dice “va tutto bene” ci sta comunicando due cose in contrasto tra loro e ci chiediamo: sta forse soffrendo o è solo commossa? Se nel pianto si fa strada un sorriso, questo potrebbe esprimere autoironia e la persona essere profondamente commossa piuttosto che fortemente colpita per un evento tutt’altro che doloroso.
Questo fino a quando una comunicazione verbale chiara – le parole – non sciolga tutti i nostri dubbi.
Da dove nascono le emozioni?
In base a quanto ho scritto sopra, siamo portati a credere che le emozioni nascano nel corpo.
Il nostro problema è che spesso finiscono nel corpo e lì rimangono: non riusciamo veramente a capire che cosa sia successo e ci raccontiamo delle frottole.
Le parole che abitano i nostri pensieri spesso sono solamente dei copioni automatici che si attivano da soli di fronte a determinati stimoli. Sono abitudini che si sono consolidate con il tempo.
Siamo arrabbiati, ad esempio: da dove scaturisce la nostra rabbia? E a cosa è dovuta?
Ci siamo sentiti feriti o offesi per una parola che non ci è piaciuta? Abbiamo provato spavento o paura per qualcosa che non ci aspettavamo? Ci sentiamo trattati ingiustamente o sentiamo di meritare di più rispetto a quanto riceviamo?
C’è un comportamento o uno stimolo sensoriale che ci dà fastidio? Siamo sotto pressione per un lavoro pesante, abbiamo accumulato molto stress e finiamo per reagire aggressivamente ad ogni piccolo inconveniente? O semplicemente: abbiamo fame o sonno?
A volte non capiamo perché siamo arrabbiati e ce la prendiamo con la persona più vicina a noi: il partner, il collega o il capo. Ce la prendiamo con qualcun altro, ma la radice della nostra rabbia non ha niente a che fare con la persona verso la quale scarichiamo la nostra aggressività.
Sotto alla rabbia esiste un mondo da esplorare: spesso non sappiamo quale sia il sentimento che l’ha scatenata.
Tutto questo può essere fonte di malintesi e di malessere negli ambienti di lavoro. A meno che non impariamo a riconoscere i nostri stati emotivi e a osservare i nostri pensieri. Finchè le emozioni rimangono confinate nel corpo, non saremo in grado di fare un salto di qualità nelle relazioni con gli altri.
E arriviamo, quindi, alla domanda che ho posto nel titolo: da dove nascono le emozioni? Le emozioni nascono dalla mente. E si manifestano come sensazioni corporee e pensieri, spesso automatici e ossessivi. Oppure nascono dal corpo come sensazioni e vengono decodificate dalla mente come emozioni e la mente attribuisce loro un significato.
Sono in ansia, il corpo me lo fa sentire in modo molto chiaro. La mente cerca qualcuno a cui dare la colpa di questa ansia: la rifiuto, non la voglio sentire, mi fa stare male. Ho delle reazioni aggressive con le persone a me più vicine e, se queste reagiscono in modo contro-aggressivo (cioè uguale e contrario), si innesca una comunicazione che può portare ad un’escalation.
Un circolo vizioso che può essere fatale per il benessere relazionale sul lavoro e nella vita privata. Si finisce, a volte, per ferirsi sul serio usando parole pesanti gli uni verso gli altri: quelle che si sono depositate dentro di noi e sono cresciute come un bubbone. Quelle che nascono da vecchie ferite e rancori che non sono mai guariti.
Parole “incavicchiate” alla realtà
La rabbia è prima di tutto affare nostro. Dobbiamo prenderci la responsabilità delle nostre proprie emozioni, soprattutto di quelle negative ovvero che potenzialmente portano negatività nelle relazioni.
Imparare a far loro spazio perché possano essere digerite e smaltite oppure comunicate e integrate in un quadro di senso più ampio.
Sono arrabbiato? Va bene. La rabbia viene sempre da un rifiuto della realtà così come si presenta. Eppure non abbiamo altra chance che accettare quella realtà o fare qualcosa per cambiarla (quando è possibile).
I maestri buddisti ci dicono che solo nella sofferenza ci può essere la fine della sofferenza. Che significa? Che solo nell’accettazione della realtà così come si presenta possiamo attraversare le difficoltà senza accumulare negatività (rabbia, rancore, risentimento, invidia, gelosia, vendetta).
E ora torniamo alle parole.
Le parole spesso sono fonte di malintesi. Eppure possono anche diventare la porta di accesso per una buona comprensione reciproca. Qual è la differenza tra i due usi della parola? È solo una questione del tipo di parole, di come le “mettiamo giù” oppure c’è qualcosa d’altro?
Nelle mie precedenti riflessioni ti ho parlato dell’empatia: la capacità di mettersi nello stato d’animo dell’altro, di sentire quello che sente l’altro. Usare le parole con empatia presuppone la capacità di agganciarle per bene al nostro stato d’animo profondo, non a quello superficiale.
Connettere le parole al nostro stato d’animo è un esercizio di onestà con noi stessi.
Luigi Meneghello, scrittore vicentino, in un libro a me molto caro intitolato Libera nos a malo, fa una riflessione sulle parole che mi è rimasta fissa nella mente:
“Ci sono due strati nella personalità di un uomo; sopra, le ferite superficiali, in italiano, in francese, in latino; sotto, le ferite antiche che rimarginandosi hanno fatto queste croste delle parole in dialetto […]. La parola del dialetto è sempre incavicchiata alla realtà, per la ragione che è la cosa stessa, appercepita prima che imparassimo a ragionare, e non più sfumata in seguito dato che ci hanno insegnato a ragionare in un’altra lingua. Questo vale soprattutto per i nomi delle cose”.
Meneghello parla di un mondo – quello agricolo e contadino della provincia negli anni del secondo dopoguerra – in cui la lingua dialettale era tutt’uno con la realtà e con lo spessore emozionale, affettivo e relazionale che questa trasmetteva.
La parola “incavicchiare” è una buona metafora di quel lavoro di costruzione di senso che voglio fare con le parole quando si tratta di trasmettere qualcosa di importante agli altri: l’immagine è quella dei tralci della vigna.
Che cos’è l’intelligenza emotiva?
Con i concetti astratti degli studi e delle ricerche delle scienze umane, la lingua rischia di diventare molto evanescente e poco efficace: dire quasi inutile. È una delle sfide che mi sono trovato ad affrontare non appena ho iniziato a fare formazione ormai una ventina di anni fa.
Fare esempi, raccontare storie e organizzare esperienze è il modo in cui noi formatori possiamo agganciare le parole alla realtà. “Intelligenza emotiva” per quanto sia diventata un’espressione di uso comune nella formazione, a moltissimi non dice nulla e non ha nessuna connessione con la propria esperienza personale.
Il mio docente universitario di pedagogia speciale ricordava a noi studenti che intelligenza viene dal latino intus-legere e significa “vedere dentro”: quindi è più intelligente chi vede oltre la superficie delle cose, chi sa guardare in profondità.
La capacità di leggere le nostre e le altrui emozioni è alla base della vita di relazione, anche sul lavoro.
Questo possiamo dire anche per l’intelligenza emotiva: è la capacità di vedere oltre le emozioni e di comprendere che cosa succede nella nostra e nell’altrui mente quando ci emozioniamo. E di creare connessioni, aggiungo io, tra quanto avviene nel corpo e nella mente per utilizzare tutto questo a favore del benessere nelle relazioni.
Coltivare l’intelligenza emotiva. Usarla come un potenziale sia personale che di tutto il team. Questo è l’obiettivo del mio workshop. Fare insieme un percorso di crescita per allenare la capacità di decodificare gli stati emotivi e mentali propri e altrui e utilizzarli per costruire sul lavoro relazioni di fiducia solide e coese.
Se pensi che questo possa fare per te o per qualcuno che conosci, condividi questo testo e il link del programma con tutti i dettagli della proposta di workshop rivolto a chi vuole allenare queste capacità.