In questi giorni sto riflettendo, tra le altre cose, sul tema del giudicare. Mi sono chiesto quante nostre decisioni – anche sul lavoro – dipendano da un giudizio piuttosto che da una valutazione.
Qual è esattamente la differenza tra le due azioni?
All’origine dei giudizi
La nostra mente produce continuamente giudizi ed emette sentenze verso qualunque fatto, oggetto o persona che incontriamo nel corso della nostra giornata. Essa si esprime soprattutto in termini di gusto (mi piace/non mi piace) e di valore (è giusto/non è giusto), ma anche di opinione (sono d’accordo/non sono d’accordo) e di opportunità (sta bene/non sta bene).
Abbiamo giudizi su tutto e su tutti: anche se non li esprimiamo ad alta voce. Ilsenso della nostra identità è legato indissolubilmente a quello che pensiamo ci piaccia o non ci piaccia e quello che pensiamo sia giusto o sbagliato.
Quello che pensiamo per l’appunto: non quello che effettivamente ci piace e non ci piace e quello che sentiamo come giusto o sbagliato.
Come nascono questi giudizi?
Parlare della nostra mente è entrare in un campo meraviglioso e complicato al tempo stesso: un groviglio senza capo né fine. Personalmente è stata più la meditazione che la psicologia e le altre scienze umane, ad avvicinarmi al cuore del problema della mente.
La nostra mente produce continuamente giudizi automatici basati sull’idea che ci siamo fatti di noi stessi e su abitudini di pensiero.
Alcuni giorni fa ascoltavo un insegnamento buddista in cui il maestro spiegava come il nostro giudizio su cosa ci piace o meno possa essere molto diverso da quello che ci piace e non ci piace davvero. Il giudizio e le sensazioni, insomma, possono non corrispondere.
Qualche giorno dopo ho iniziato a notare qualcosa di simile nella mia vita. Ad esempio, mi sono accorto di essere convinto che le automobili non mi piacciano: invece, se osservo bene le mie sensazioni, mi accorgo che mi piacciono e, soprattutto, se penso anche al passato, mi sono sempre piaciute.
Lasciamo stare il fatto che abbia rinunciato all’auto alcuni anni fa per questioni di comodità: vivo a Milano città e non mi risulta confortevole usarla per spostarmi, quindi ha finito per essere una spesa e un peso più che un aiuto.
In ogni caso, nell’idea di me stesso che mi sono costruito e che voglio mostrare agli altri, l’attrazione verso le auto non risulta coerente/logica e ha finito per diventare un “non interessano le automobili quindi non mi piacciono”.
La verità è che continuano a piacermi e nuovi modelli e design attirano la mia attenzione, eccome!
Hai mai notato qualcosa di simile nella tua vita? Prova a pensarci un attimo.
Giudicare e valutare sul lavoro
Che risvolti può avere questa riflessione in ambito professionale e nella gestione del team?
Prendere decisioni è un’attività delicata. In alcuni casi è sicuramente cruciale. Spesso basiamo le nostre decisioni su giudizi piuttosto che su valutazioni.
Per questo è opportuno condividere il processo decisionale con il team, anche se questo può risultare faticoso e comporta tempi più lunghi. La condivisione della decisione – se abbiamo creato un contesto trasparente e paritario – ci mette al riparo dagli inganni della mente.
Nel libro Work Rules di Laszlo Boch, ex vice-presidente senior di People Operations in Google, scrive: «Prendi decisioni in base ai dati, non in base alle opinioni dei manager». E continua dicendo che, senza dati, l’opinione di un manager vale tanto quanto quella di un membro del team.
Oggi, in ambito aziendale, si insiste molto sul fatto che le decisioni debbano essere prese in base ad una raccolta dati il più possibile estesa e affidabile. Decidere in base ad “impressioni” non è ragionevole. Perché?
Prendere una decisione insieme al team è un modo per prevenire giudizi arbitrari basati su bias ed opinioni personali.
Perché queste impressioni spesso si basano su giudizi e i giudizi risentono dell’inclinazione specifica della nostra mente: non quella che usiamo per ragionare e per pensare in modo ordinato, ma quella che esprime la nostra idea di noi stessi e cerca di conservare la nostra identità.
Che poi, direbbero i maestri spirituali, è un’invenzione bella e buona.
Se poi passiamo al piano delle relazioni interpersonali, il giudizio può davvero renderci la vita difficile e darci più grattacapi che aiuto.
È cosa abbastanza palese che proviamo attrazione o repulsione verso le persone, ma cosa ce ne facciamo di queste sensazioni?
Cosa succede quando diventano giudizi: lei mi piace, lui non mi piace? Quanto possono inficiare il lavoro in team oppure la nostra valutazione di quello che esce dalla bocca dei nostri collaboratori?
Sappiamo riconoscere che un pensiero ragionevole ed utile possa uscire anche da chi non ci piace?
Qualche conclusione
So di avere affrontato un tema difficile e di averlo solamente accennato senza offrire alcuna soluzione: la mente è sempre lì che emette sentenze e quindi? Che fare?
Durante il workshop sull’intelligenza emotiva approfondisco queste dinamiche nella pratica.
Abbiamo bisogno di sapere come usare bene le nostre potenzialità e come tenere a bada i nostri pensieri automatici e compulsivi.
Formarsi ed allenarsi significa esprimere tutte le potenzialità e acquisire buone abitudini di pensiero e di azione.
All’inizio delle mie sessioni formative, tra le regole d’oro per costruire un ambiente in cui fare allenamento insieme, cito sempre il “non giudizio”. In un ambiente dedicato alla crescita professionale, sotto la guida di un facilitatore, ci è più facile seguire questa regola e metterla in pratica.
Nella vita comune, sotto l’impulso dei nostri bisogni e inclinazioni, è più difficile. Allenarsi in gruppo serve anche a questo: a trasferire negli ambienti di vita quotidiana (sul lavoro, a casa, nel tempo libero) le buone abitudini che acquisiamo durante la formazione.
E una formazione che sia davvero efficace mira proprio a questo.