Quale diversità per quale inclusione?
Oltre il genere e la disabilità.

Rispettare le diverse dimensioni dell'individualità e dell'identità di ciascuno è un passo necessario per garantire il benessere in azienda.

L’inclusione è un concetto mutuato dall’inglese ed è relativamente nuovo per la lingua italiana. Al di là del senso più superficiale dell’includere in un gruppo, tecnicamente il concetto si riferisce al processi e strategie di bilanciamento delle asimmetrie nelle relazioni sociali, grazie al potenziamento delle capacità di chi è in situazione di svantaggio e alla creazione di condizioni che favoriscono la parità di accesso a diritti e vantaggi.

In senso più ampio, si riferisce alla valorizzazione delle differenze e dei contributi che portano nell’ambiente di lavoro le persone con i loro background e caratteristiche e alla creazione di un senso di benessere e appartenenza per tutti.

Disabilità e appartenenza al genere femminile sono in genere i primi aspetti che vengono toccati in ambito aziendale quando si tratta di gestire il personale in senso inclusivo.

Condizioni di disabilità e appartenenza al genere femminile sono gli unici aspetti tenuti finora in considerazione in Italia in ambito di pari opportunità sul lavoro.

Ad esempio, sappiamo benissimo quanto oggi in Italia per una donna – tanto più se madre – sia difficile ottenere sul lavoro lo stesso salario e le stesse opportunità di carriera di un uomo.

Il tanto decantato “multitasking” per cui la donna sarebbe divenuta esperta deriva non tanto da doti innate, quanto da una sovrapposizione di ruoli a cui non può tirarsi indietro e nella cui gestione ha dovuto diventare maestra per forza di cose.

Sappiamo che a parità di professionalità e competenza, il sistema lavorativo non premia affatto le donne e la divisione dei ruoli privati e pubblici continua a ostacolare la moltiplicazione delle opportunità. Questo uno dei temi a cui il concetto di inclusione, già assai noto nel campo delle disabilità, vuole dare risposta.

I dipartimenti “Diversità & Inclusione”

Varie multinazionali negli ultimi anni hanno inaugurato un dipartimento dedicato ad azioni strutturali, formative e culturali che hanno l’obiettivo di bilanciare/promuovere le opportunità per i dipendenti e prevenire forme di discriminazione.

Il dipartimento “Diversità & Inclusione” parte dal riconoscimento di un dato di realtà: non è vero che “siamo tutti uguali”, non è vero che tutti siamo visti e trattati allo stesso modo sul lavoro indipendentemente dalle nostre differenze e condizioni di partenza.

Le differenze contano e a volte producono dei bias (pregiudizi) pesanti. Non è solo questione di scelta/visione personale, ma è spesso il risultato di consuetudine e cultura diffuse dentro e fuori l’impresa oltre che di strutture costruite in base alle differenze.

Appartenenza nazionale ed etnica, colore della pelle, lingua materna, genere, età, disabilità, condizioni di salute, orientamento sessuale, e classe sociale contano.

Per questo motivo, è cura del dipartimento favorire il riconoscimento e la valorizzazione delle differenze da una parte e dall’altra garantire equità nelle decisioni dell’azienda verificando che esse non vengano prese a scapito di qualcuno a causa di caratteristiche individuali e di appartenenze.

Prevenire condizioni di stigma sul lavoro verso caratteristiche individuali e identitarie significa valorizzare e riconoscere quelle differenze apertamente.

Mi è capitato spesso di candidarmi per posizioni offerte da organizzazioni britanniche. Per legge è prevista la comunicazione in via confidenziale di alcuni dati sensibili – quali nazionalità, appartenenza etnica e orientamento sessuale – in modo da garantire che le selezioni siano svolte in modo equo e, soprattutto, in modo non discriminatorio per chi è socialmente oggetto di stigma per via delle sue caratteristiche e appartenenze.

Poco sopra ho parlato di caratteristiche anche individuali. Ci sono infatti anche aspetti non specificamente identitari per cui si può venire stigmatizzati e discriminati. Ad esempio, in certi contesti, il fatto di essere madre single può essere considerato inopportuno e vergognoso.

Un dipartimento che porti a consapevolezza del management che questa è una condizione di possibile esposizione a stigma e di svantaggio nell’accedere a determinate posizioni, vigila sul fatto che la lavoratrice non venga penalizzata nella quotidianità e nella carriera.

Inoltre, dal punto di vista culturale, il dipartimento può mettere in luce il fatto che esistono vari modi di essere madre e famiglia, e quello di essere madre single è semplicemente uno dei tanti.

Invisibili: caratteristiche identitarie e condizioni individuali tabù

Tra quelle che ho citato, ci sono condizioni che non sono immediatamente visibili, ma che possono col tempo emergere. Ad esempio lo stato di salute, soprattutto se si tratta di “malattie non comunicabili” come l’HIV oppure l’orientamento sessuale o l’identità di genere non conforme (transgenderismo).

Laddove queste condizioni personali non sono esplicitamente considerate accettabili e “normali”, nel migliore dei casi vige la politica del “don’t ask, don’t tell” ovvero non rivelo informazioni personali finché non vengono a galla da sole o non mi vengono esplicitamente chieste.

Per fare un esempio, ci sono paesi dove l’HIV è tuttora criminalizzato ed è impedito l’accesso a persone HIV+. Fino a pochi anni fa, gli Stati Uniti stessi avevano una politica di restrizione in questo senso.

Abbiamo detto che le grandi multinazionali, anche per il fatto di essere diffuse in molteplici paesi con culture e caratteristiche differenti, esiste un dipartimento che promuove attraverso varie iniziative la parità tra i lavoratori e la valorizzazione delle differenze.

Tra i diritti tutelati, c’è dunque anche quello ad “essere se stessi” senza fingere di essere differenti per compiacere le norme sociali.

Persone gay e lesbiche oppure HIV+ nascondono ancora la loro condizione sul lavoro perché questi temi non hanno un riconoscimento pubblico in azienda.

È il caso ad esempio delle persone LGBTQ, acronimo che sta per lesbiche, gay, bisessuali, transgender e queer. Molti pensano che la sessualità e l’affettività siano un fatto privato, ma la realtà ci dice che continuamente nei nostri discorsi e nelle decisioni facciamo riferimento a come gestiamo la nostra vita affettiva e sessuale e come le nostre relazioni affettive e sessuali interagiscono con la vita pubblica e lavorativa.

Basti pensare ad una cena di lavoro dove sono invitati anche i partner oppure, molto più semplicemente, all’uso dell’umorismo e dei luoghi comuni in cui affettività e sessualità sono spesso presenti.

Come è possibile garantire l’inclusione per le persone LGBTQ in un contesto dove l’omofobia (che sarebbe meglio chiamare “omonegatività”, cioè l’avversione verso chi è omosessuale) è pesante e comporta dei rischi per la persona che ne è oggetto sia sul posto di lavoro che nell’ambiente sociale in genere?

Abbiamo parlato di grandi multinazionali. E cosa succede nelle piccole e media imprese dove questa attenzione spesso non c’è? Cosa succede nelle diverse latitudini in virtù della considerazione che questi temi hanno nella sfera pubblica e legislativa?

La risposta è semplice. Il più delle volte la verità viene nascosta e viene vissuta una “doppia vita”.

La mia esperienza personale

Personalmente, vengo da esperienze in cui ho nascosto sul lavoro e addirittura mentito di essere gay, raccontando di avere una fidanzata, che in realtà era un fidanzato. Solo in un successivo ambiente di lavoro e con una sola collega a cui ero legato, sono riuscito a raccontare le cose come stavano.

Infine, ho affrontato la questione apertamente con la mia responsabile solo in una terza situazione lavorativa e a porle esplicitamente la domanda: “come secondo te devo affrontare questo tema nell’ambiente di lavoro?”.

Il progresso più importante, tuttavia, è avvenuto quando mi sono spostato a Milano e ho iniziato ad occuparmi di benessere delle persone LGBTQ. Nell’associazione Onlus in cui lavoravo, ho trovato lo spazio per essere me stesso.

Ho trovato il coraggio di essere me stesso in una organizzazione no-profit che si occupava di HIV, sex worker e persone transegender. Lì non c’era alcun tabù.

In quella realtà lavorativa non c’era bisogno di nascondersi perché erano caduti tutti i tabù. Essa stessa, infatti, si occupava di temi sensibili: HIV, prostituzione e persone transgender.

Tutte le situazioni che ho raccontato – tranne la prima che era in ambito retail – sono avvenute nell’ambito del non-profit e l’evoluzione è stata dettata dal cambiamento di un mio atteggiamento verso me stesso, oltre che da una diversa disponibilità dei colleghi e dell’ambiente circostante.

Per concludere

Posto che il senso di responsabilità, l’affidabilità, le competenze ed il talento – e non il background o le appartenenze pur essendo sicuramente foriere di creatività – sono le qualità di un lavoratore o di una lavoratrice che interessano ad un’azienda, la possibilità di vedere rispettate e riconosciute le varie dimensioni dell’identità e dell’individualità è necessaria per sentirsi al sicuro e in una dimensione confortevole sul lavoro.

Questo vale per qualunque caratteristica identitaria e individuale.

Si tratta di questioni che mi sono posto e che mi pongo sia personalmente, ad esempio quando devo decidere in quale paese spostarmi per lavoro, e quando entro in una nuova organizzazione o azienda, sia in quanto manager che si preoccupa di garantire un ambiente di lavoro in cui benessere e soddisfazione personale facciano il paio con performance e risultati di gruppo.

Qualche domanda finale

  • C’è mai stata nella vostra esperienza una particolarità personale che avete nascosto sul lavoro?
  • Perché lo avete fatto?
  • Siete riusciti ad esprimerla e in quale circostanza? Come hanno reagito i vostri colleghi o i vostri capi?
  • Quali garanzie offre la vostra azienda/organizzazione in termini di diversità ed inclusione? O come voi contribuite a realizzarla se ne siete i titolari?
  • Se siete lavoratori stranieri, come avete vissuto le vostre caratteristiche “sensibili” nel paese dove siete emigrati e in particolare sul posto di lavoro?

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